Pescare negli Stretti
L’alieutica antica dalle Colonne d’Ercole al Ponto Eusino fra realtà e mirabilia
p. 215-233
Texte intégral
1Nel mondo greco il pescatore (ἁλιεύς) ha uno statuto diametralmente opposto a quello del cacciatore (κυνηγετικός)1. Platone nel Sofista2 discute a lungo se l’ἁλιευτικήv («alieutica») si possa definire una τέχνη, concludendo positivamente3. Ma nella sua πολιτεία4 i pescatori non trovano considerazione alcuna, perché nell’esercizio della propria arte non impegnano nessuna areté: la caccia, in particolare quella al cinghiale, è nobile esibizione di ἀνδρεία («coraggio») ed altamente educativa5. Comunque il pescatore è sempre povero6. La sua vita è sempre in pericolo di fronte alle insidie del mare e ai possibili attacchi dei grossi esemplari, i κήτη (le beluae). È con Oppiano di Anazarbo, autore dei cinque libri di Halieutika, che il pescatore guadagna il proprio statuto, dal poeta ampiamente illustrato: l’ἁλιεύς è depositario di una sua peculiare τέχνη che esercita grazie all’impiego della propria μῆτις nell’allestimento e messa in opera dei δόλοι in gara e lotta con la μῆτις degli animali acquatici, e all’utilizzo di strumenti omologhi a quelli della cinegetica, in particolare reti e tridente.
2Una coppa greca del Boston Arts Museum raffigura un giovane che, seduto su uno scoglio, pesca con la lenza. Di fronte a lui il mondo marino invisibile7. Lo scoglio è l’archetipo del punto di arresto (o di contatto inevitabile) e dei percorsi degli animali e degli uomini. Esso è piantato strategicamente all’entrata di uno Stretto dove confluiscono diverse forme di vita e nel quale si sono scontrate civiltà. È un ὅρος («limite»), oltrepassare il quale richiede prova di ardimentoso valore. Odisseo ne è il prototipo eroico. Scilla, il mostro consustanziale allo scoglio, presidio dell’omonimo Stretto, è la dilatazione mostruosa dell’unità minima del pescatore sullo scoglio, come testimoniato dalla Scilla di Omero8.
3Come è noto, la navigazione antica avveniva generalmente non in mare aperto, ma sotto costa. Di conseguenza non si praticava la pesca d’altura. E riguardo gli esseri viventi acquatici vale l’osservazione di Plinio, il quale, premesso che tra gli animali che si trovano nei mari, fiumi e acque stagnanti ve ne sono parecchi più grandi di quelli terrestri, specifica:
Invero nel mare, che si estende per spazi cosí vasti e che offre sostante nutritive molli e ricche, recependo la natura le cause genitali dall’alto e generando continuamente, si trovano anche parecchi esseri mostruosi9.
4Prosegue poi con la descrizione della genesi di tali monstrifica. Ancora più in particolare in Naturalis Historia, XXXII, 53, dopo aver affermato l’esistenza di centoquarantaquattro specie di animali acquatici e l’impossibilità di quantificare quelle terrestri ed aeree, perentoriamente afferma:
Certamente si converrà che non si possano addurre in una visione generale tutte le specie. Ma, per Ercole, gli esseri che nascono nel mare cosi esteso nell’Oceano sono chiaramente noti, e ancora più noti meraviglia!, sono quelli che la natura ha sprofondato negli abissi. Per iniziare dalle grandi bestie, essi sono: gli alberi, i capodogli, le balene, le pistrici, i Tritoni, le Nereidi, gli elefanti, i cosiddetti uomini marini, le ruote, le orche, gli arieti, i muscoli e altri arieti in forma di pesci, i delfini e i vitelli marini noti a Omero, le testuggini care agli amanti del lusso e i castori noti ai medici […], e ancora i pescicani, i «drinoni» le «cornute», i pesci spada, i pesci sega, e gli ippopotami, comuni alla terra, al mare e ai fiumi, i coccodrilli, e comuni soltanto ai fiumi e al mare i tonni, le «tonnidi», i siluri, i coracini e le perche10.
5E ritornando sull’argomento, Plinio, fatta una rapida rassegna della fauna eccezionale presente nei mari estremi dell’ecumene, afferma:
Gli animali più grandi nel Mare Indiano sono la pistrice e la balena; nell’Oceano Gallico c’è il capodoglio, che si innalza come una immensa colonna e, più alto delle vele delle navi, vomita acqua come un diluvio; nell’Oceano Gaditano c’è l’albero che si espande con i suoi rami per uno spazio così ampio che, per tale motivo, si crede che non sia mai entrato nello stretto. Compaiono anche delle ruote, così chiamate per somiglianza (alle vere ruote), divise in quattro raggi, con i loro due occhi che chiudono l’uno e l’altro mozzo11.
6Come è prassi della letteratura «scientifica» classica, Plinio va subito a corroborare le sue notizie. Riporta (par 9), quanto riferito da un’apposita ambasceria inviata da Olisipone all’imperatore Tiberio:
Annunciò che in una grotta era stato visto e sentito un Tritone che suonava la tromba, dalla figura identica a quella che si conosce. E non è falso ciò che si dice delle Nereidi: soltanto, il corpo è ispido di squame anche dove hanno aspetto umano. Infatti una di queste è stata vista in quella medesima spiaggia: gli abitanti dei dintorni hanno anche udito di lontano il canto triste di lei morente; e al Divino Augusto un legato della Gallia ha scritto che sul litorale erano visibili parecchie Nereidi esanimi. Ho l’autorevole testimonianza di personaggi illustri dell’ordine equestre, i quali affermano di aver visto personalmente nell’Oceano Gaditano un uomo marino, in assoluto somigliante in tutto il corpo ad un umano; di notte saliva sulle imbarcazioni e subito si abbassavano le parti sulle quali si situava, e, se vi rimaneva più a lungo, esse venivano anche sommerse. Sotto il principato di Tiberio, in un’isola opposta al litorale della provincia di Lione, l’oceano rilasciò, rifluendo, più di trecento fiere marine, di mirabolante varietà e grandezza; né poco meno ne lasciò sulla spiaggia dei Santoni: fra le altre, elefanti e arieti, con le corna rese simili solo da macchie bianche, e per la verità molte Nereidi. Turrano riferisce che sulla spiaggia di Gades fu espulsa una bestia che avrebbe misurato sedici cubiti tra le due pinne poste alla parte finale della coda; centoventi sarebbero stati i suoi denti, della misura di tre quarti di piedi i più grandi, di mezzo piede i più piccoli12.
7Assodato dunque che il grande Oceano nutre, possiamo dire, plurima maiora et maxima animalia, Plinio13 registra la loro presenza nei “nostri mari”, con l’attenzione14 ferma al physeter (il capodoglio), che, guarda caso, è paragonato a una colonna15, più alto delle vele delle navi16. Vera ostruzione dello Stretto sarebbe l’arbor: trattandosi di un mostro marino (belua), la forma ramificata potrebbe far pensare ad una piovra gigante, ma non si può escludere che si tratti di formazioni madreporiche o coralline oppure della grande Alga Bruna (Laminaria ochroleuca) tuttora presente all’imboccatura del porto di Cadice, le cui dimensioni frondose (ramis) possono raggiungere la superficie e ostacolare così la navigazione. La puntuale e geometrica descrizione pliniana della rota, una belua dal profilo tondeggiante munito di mozzo (modiolus), ossia di un peduncolo che sostiene le pinne laterali, di notevole statura, fa pensare al pesce luna (Mola mola), ancor oggi chiamato a Torre del Greco, sul litorale di Napoli, «rota»17.
8Segue18 una rassegna di beluae mirabiles19, descritta secondo i moduli della letteratura paradossografica, ossia ricorrendo, per attestarne la veridicità, a precise ed autorevoli testimonianze frutto de relatu o de visu. L’ambasceria degli Olisiponensi, inviata proprio a questo scopo, riferisce che è stato visto e sentito in una grotta un Tritone mentre suonava la conchiglia, qua noscitur forma. La mancata descrizione e la precisazione finale sembrano alludere a riproduzioni artistiche della figura del Tritone, come tale dunque ben conosciuta. Inoltre è vero, secondo il naturalista, quanto si dice delle Nereidi. Aggiunge che il loro corpo è squamoso anche dove hanno aspetto umano. Sul medesimo litorale di Olisippo ne è stata vista una morente, della quale gli abitanti del luogo hanno sentito il triste canto. Più autorevole quanto scritto sulle Nereidi al Divo Augusto dal delegato della Gallia. Determinante, dato il tono enfaticamente perentorio con cui viene proposta, è la riferita esperienza de visu degli eminenti personaggi dell’ordine equestre relativa alla presenza in Gaditano oceano dell’homo marinus e delle sue esibizioni. Infine, Tiberio principe, l’eccezionale spiaggiamento di più di trecento beluae marine mirae varietate et magnitudine in un’isola antistante la costa della provincia di Lione, né in minor numero il riflusso ne lasciò sulla costa dei Santoni, tra gli altri elefanti (trichechi), arieti (di mare, probabilmente delphinus orca). Ulteriore fonte è Turranio Gracile, il quale racconta dell’espulsione in litora Gaditana di una belua, da identificare, stando ai precisi dati descrittivi, col capodoglio.
9Dopo la sezione dedicata alle mirabiles beluae, Plinio continua riprendendo il discorso sulle balene:
Le balene penetrano anche nei nostri mari. Dicono che si vedono nell’Oceano Gaditano non prima del solstizio d’inverno; invero in tempi fissi si nascondono in certe insenature calme e piuttosto ampie e là meravigliosamente gioiose partoriscono. Sanno questo le orche, belve pericolose per loro e la cui figura non potrebbe essere rappresentata altrimenti se non come un’enorme massa di carne, orrendamente truce per i denti. Esse dunque irrompono in questi luoghi solitari e dilaniano a morsi i balenotteri o le femmine che hanno da poco partorito o addirittura le gravide; oppure le trafiggono come avviene con i rostri delle Liburne. Quelle poco agili nel voltarsi, incapaci ad opporre resistenza e gravate dalla loro massa, proprio allora appesantite nell’utero o fiaccate dai dolori del parto, conoscono quale sola via di salvezza trovare rifugio in alto mare e difendersi nella sicurezza offerta dall’Oceano. Di contro le orche si affannano ad affrontarle, ad opporsi e a massacrarle intrappolate in luoghi ristretti, di spingerle nei fondali, di mandarle contro le rocce. Questi combattimenti sono spettacolo di un mare come in ira contro se stesso: in assenza di alcun vento nell’insenatura, ai soffi affaticati e ai colpi delle belve è tutto un alto turbine di flutti20.
10Il naturalista si sofferma sullo stazionamento delle balene in Gaditano oceano, dove le si avvistano non prima del solstizio invernale. Qui, stabilendosi in tranquille insenature, partoriscono. Ma le orche (l’orca è difficile da descriversi: una massa enorme di carne spaventevole per i denti!), pronte all’occasione, dilaniano i piccoli delle balene, le madri o quelle ancora gravide. La terribile dentatura assolve nell’assalto la stessa funzione dei rostri delle navi liburne21. La descrizione delle modalità del feroce e studiato assalto evoca momenti di una battaglia navale che arriva a violentare la placida superficie del mare. L’imagerie descrittiva potrebbe suggerire addirittura la carneficina di una «fantastica mattanza» autodistruttiva con protagoniste orche contro balene! E per asseverare l’alto tasso di ferocia dell’orca, come nell’attesa, Plinio completa il dato scientifico raccontando (parr. 14-15) di un esemplare giunto nel porto di Ostia sulla scia di una nave carica di pelli proveniente dalla Gallia. Inabissatosi nell’alveo portuale, per ordine dell’imperatore Claudio furono stese delle reti che ne impedirono la fuoriuscita. Claudio stesso, giunto sul luogo con le coorti pretoriane populo Romano spectaculum praebuit: dei soldati scagliavano lance contro la bestia dalle barche, una delle quali finì sommersa dal suo soffione d’acqua.
11Lo Stretto occidentale, al di là e al di qua dello stesso, era dunque popolato non solo dai personaggi della mitologia codificata fin da Esiodo (Atlante, le Esperidi col loro giardino, Gerione), che erano pertinenti al mondo terrestre, ma anche da tutto quanto di eccezionale e di non abituale (le beluae) costellava l’habitat marino su cui gravitava lo Stretto, la via d’entrata nei «nostri mari» di beluae di grosse dimensioni e dimora di figure strane: l’arbor, corallo o alga che sia, in ogni caso elemento ostativo e di limite acquatico speculare alle Στῆλαι («Colonne») terrestri e, di seguito, la rota/mola, pesce luna geometricamente descritto nella sua livrea, e, ancora, mostri fantastici, alcuni assunti nella sfera di veri e propri personaggi mitologici, i Tritoni, sentinelle «canore», con habitat la grotta, le Nereidi/iguane, e di seguito l’homo marinus/lamantino o dugongo, elefanti/trichechi. Infine lo spiaggiamento sul litorale di Cadice del capodoglio, per il quale Plinio non dispone di un nome specifico.
12Dunque, quanto proveniva dall’Oceano, divinità e forza acquatica primordiale, conservava la facies tipica di quell’habitat: le grosse dimensioni e la mostruosità. Si trattava degli abitanti dell’Oceano di fronte ai quali i pescatori con i loro instrumenta inadeguati non potevano provare se non terror e horror. Il che generava il racconto fantastico e l’affabulazione creativa della figura del κῆτος/belua22, in una parola del mostro marino, mirabile protagonista di mirabilia. C’è di più: i κήτη/beluae non facevano parte della catena alimentare, anzi la minacciavano. Almeno nella fascia delle dimensioni maggiori, poiché fra di essi gli antichi includevano un pesce osseo di statura elevata come il tonno23, pregevole nell’alimentazione24. Pertanto pescare negli Stretti nella realtà e nell’immaginario degli antichi comporta un impegno che supera di gran lunga quello dell’archetipo minimo del piccolo pescatore sullo scoglio. Infatti la principale e, per certi versi, spettacolare forma di pesca, vera e propria «caccia»25, è volta alla cattura dei grossi esemplari, precisamente tonno (θῦννος), pesce spada (ξιφίας o γαλεός) e —pesca empia dei Traci e dei popoli marginali abitanti lungo le coste del Ponto— il delfino (δελφίς). I tre esemplari sono stati particolarmente trattati dagli autori antichi che direttamente o indirettamente abbiano scritto di alieutica.
13La migrazione del tonno è anche un percorso odissiaco, all’inverso, da occidente verso oriente e viceversa. È Aristotele26, a fornire notizie sulla sua riproduzione, sul tafano che lo assilla27 —qui viene detto che anche il pesce spada soffre del medesimo assillo, anche se diversa è la reazione—, sulla sua cecità dell’occhio sinistro28. Osservazioni che vengono riprese e rimodulate dagli autori successivi. In particolare, notizie relative alla cecità vengono riprese da Eliano29, il quale dopo aver riferito, Aristotele auctore, sulla capacità dei tonni di percepire i mutamenti stagionali e il tempo dei solstizi sottolinea come, di conseguenza, dovunque li sorprenda l’inizio dell’inverno, rimangono tranquilli e con piacere là dove si trovano fino all’arrivo dell’equinozio. Essi vedono da un occhio solo, come testimonia Eschilo30, entrano nel Ponto tenendo alla loro destra la terraferma, perché è proprio da quella parte che possono vedere; quando invece fuoriescono, nuotano lungo la riva opposta, preoccupandosi di proteggere il loro corpo nel miglior modo possibile mediante l’occhio col quale vedono. Ateneo si sofferma sull’etimologia del nome, sull’οἶστρος, sulla procreazione e sulla cecità31 sempre a proposito dell’ingresso del pesce nel Ponto. Ma è Plinio32 il collettore più completo della tradizione scientifica (anatomia) e pseudoscientifica relativa al tonno. Ai nostri fini interessano le notizie sulla sua migrazione33: assieme ai tonni entrano nel Ponto, per la ricchezza del nutrimento, l’amia e le palamite. Essi sono organizzati a gruppo, ciascuno con un capo; primi di tutti gli sgombri, che «Hispaniae cetarias […] replent, thynnis non commeantibus»34. Ancora, i tonni entrano dalla riva destra ed escono da quella sinistra. Si pensa che ciò avvenga perché vedono più con l’occhio destro, benché siano per loro natura deboli da entrambi gli occhi. Scende ulteriormente in dettaglio Plinio:
Nel canale del Bosforo Tracio, grazie al quale la Propontide si congiunge all’Eusino, proprio nel breve tratto dello stretto che separa l’Europa dall’Asia, vi è una roccia di meravigliosa bianchezza che riluce dai fondali fino alla superficie: si trova vicino a Calcedone, sul versante asiatico. Atterriti dalla vista repentina di questo masso, i tonni si precipitano a schiera compatta dirigendosi verso l’opposto promontorio di Bisanzio, per tale motivo chiamato Corno d’Oro. Di conseguenza la pesca avviene tutta a Bisanzio, mentre grande penuria di essa è a Calcedone, pur essendo questa separata da uno stretto canale di mille passi. Poi attendono il soffio dell’aquilone per uscire dal Ponto con la corrente favorevole, e non vengono catturati se non quando entrano nel porto di Bisanzio. In inverno non errano: dovunque li sorprenda, colà svernano fino all’equinozio. Spesso addirittura accompagnano le imbarcazioni a vela con un certo strano piacere per il tempo di alcune ore e per alcune miglia di distanza, niente affatto spaventati dal tridente piuttosto spesso lanciato contro di essi. Taluni chiamano pompili quelli che fra i tonni fanno questo. Molti trascorrono l’estate nella Propontide e non entrano nel Ponto […]. La pesca del tonno si svolge dal sorgere delle Pleiadi fino al tramonto di Arturo. Per il resto dell’inverno si nascondono nella profondità dei gorghi, a meno che non siano richiamati su da un qualche tipo di calore o dal plenilunio. Ingrassano anche al punto da scoppiare. La loro vita è massima di due anni35.
14Plinio, pur nella rimodulazione delle testimonianze aristoteliche sopra citate, si sofferma sul passaggio «odissiaco» della schiera dei tonni attraverso lo Stretto orientale, il Bosforo Tracio, per entrare nel Ponto, riportando la notizia della roccia di straordinario candore emergente dagli abissi fino alla superficie ubicata nei pressi di Calcedone, sul lato asiatico opposto al promontorio di Bisanzio. Il terrore generato dal bagliore di tale roccia atterrisce i tonni che si dirigono a schiera verso Bisanzio, dove vengono catturati, trovando qui la morte. Rimanendo sul piano del paradossale, il saxum miri candoris situato sul versante asiatico dello Stretto sarebbe omologo di Scilla mostro e promontorio e Bisanzio/Corno d’oro, ancora paradossalmente, omologa nella funzione della grande depressione di Cariddi, luoghi di morte per l’incauto marinaio, luoghi di morte per la schiera dei tonni. Uomini e pesci sembrano subire lo stesso destino a causa di monstrifica piazzati quasi a presidio degli Stretti.
15Tra Plinio Seniore e Oppiano di Anazarbo, che pure utilizza Aristotele e la tradizione della letteratura scientifica e tecnica a lui anteriore, con fonte principale Leonida di Bisanzio36, e che compone i suoi Halieutika Halieutika, dedicati a Marco Aurelio intorno al 180-185 d.C., corre un secolo. Già nella sezione catalogica37, dopo aver indicato le mostruose dimensioni dei kete e il loro habitat in alto mare, menziona tra gli altri, μέλαν θύννων ζαμενὲς γένος (v. 369), i κύνες nella loro τριχθαδίη γενεή (vv. 373-374), alla terza delle quali appartengono i γαλεοί (i. e. ξιφίαι) e infine i δελφῖνες (vv. 383 sqq.).
16Ma anche Oppiano mantiene inalterato il senso di horror di fronte agli abitanti delle acque dell’immenso Oceano, come esplicitamente espresso in Halieutika38, κήτη vivono in mezzo al mare moltissimi e grandissimi, non emergono in superficie, ma occupano gli abissi marini a causa della loro pesantezza, desiderano il pasto con continua rabbia, sempre famelici, e non li abbandona mai la voracità del ventre. Quale esca è così grande da riempire la cavità del ventre, quale esca può saziarli? Invero anche da se stessi periscono vicendevolmente, soccombendo il più debole al più forte: l’un l’altro sono pasto e banchetto. In particolare i versi
Spesso andando contro le navi inducono terrore
lungo l’occidentale mare Iberico, dove, lasciate le acque
Smisurate del vicino oceano, massimamente si aggirano,
simili a navi da venti remi. Ma spesso erranti giungono
anche vicino alla spiaggia dal profondo fondale: allora
qualcuno potrebbe contro di loro essere armato39
rendono plasticamente, proprio grazie al paragone dei κήτη con navi di venti remi, le loro eccezionali dimensioni, in ogni caso pericolo e motivo di pronta all’erta armata per gli abitanti dei litorali.
17Se le notizie anatomiche e fisiologiche fluiscono da Aristotele a Plinio, e allo stesso Oppiano40, è comunque questi che informa con precisione, pur nel dettato poetico, sulla migrazione del tonno dallo Stretto Gaditano al «mare nostro»:
È del vasto oceano la stirpe dei tonni. Avanzano
a schiera verso le opere del nostro mare, quando furiosi
sono assillati dall’ estro di primaverili nozze.
Primamente li catturano all’ interno del mare Iberico
marinai Iberi superbi per forza, poi alla foce dell’ Eridano
Celti, antichi abitanti di Focea, infine li cacciano quanti
abitano nell’isola Trinacride, e presso i flutti del mare Tirreno41.
18Le coordinate geografiche delle tappe del percorso del tonno nel nostro mare, in relazione alla località di pesca, sono indicate in precisa sequenza. Provenienza è l’ampia distesa dell’Oceano, il primo passaggio/pesca avviene (βίῃ) all’interno del mare Iberico da parte dei «κομόωντες Ἴβηρες», il secondo «Ἠριδανοῖο παρὰ στόμα» (uno stretto fluviale) ad opera dei Celti che abitano Focea, il terzo nella «Τρινακρὶς νῆσος». Superato quest’ultimo «stretto di pesca», i tonni si disperdono chi di qua, chi di là e navigano per tutto il mare (vv. 629-630). Oppiano passa a descrivere (vv. 631-648) lo svolgimento della pesca. Essa avviene a primavera quando i tonni avanzano a schiera, come un esercito di guerrieri. I pescatori individuano un tratto di costa non troppo angusto né molto esposto ai venti, avente misure mediane rispetto all’aria e alla profondità. Quindi per prima cosa in alto, sulla cima di un colle, sale l’accorto θυννοσκόπος (v. 637), il quale ispeziona le schiere di ogni genere, quante e quali siano, e le segnala ai compagni. Allora subito tutte le reti avanzano in mare come una città: in essa ci sono stanze, porte e recessi. I tonni invero celermente sono portati a torme, come masse di uomini che vanno divisi per tribù. Altri sono più giovani, altri più vecchi, altri di età media. In numero infinito confluiscono nelle reti, che radunati li accolgono. Ricca e straordinaria è la pesca42!
19Sul passo di Oppiano si è incentrata l’attenzione degli studiosi in riferimento alla tecnica di pesca del tonno soprattutto riguardo ai suoi instrumenta, il θυννοσκοπεῖον, la tonnara43 e la «mattanza», come vedremo più avanti.
20Le testimonianze di Eliano44 e di Filostrato45 non lasciano individuare con certezza se i Greci conoscessero la tonnara come struttura fissa. Hanno supplito le ricerche archeologiche. Ceppi d’ancora ritrovati sul fondale marino fanno ritenere che gli antichi popoli del Mediterraneo impiegassero reti fisse simili alle tonnare46. Comunque, la struttura di una tonnara, «non fissa», ma «stagionale», articolata in un sistema di reti costituenti camere che via via convogliavano i tonni sino a quella della morte, è già in Oppiano47, ed è rapportabile, secondo Calvo Delcán48, alle almadabras che si sono usate nel Mediterraneo fino a tempi recenti. Oppiano non accenna alla mattanza: generica è la conclusione descrittiva49.
21Che la pesca del tonno fosse in qualche modo eccezionale è dimostrato dall’attenzione con cui Eliano50, informa sui termini tecnici indicanti presso gli Ἰταλοί e i Σικελοί la «caccia dei tonni» (κητεία) e il deposito dei relativi instrumenta (κητοθηρεῖα) dandone la motivazione. Continua riferendo di aver appreso che i Celti, gli abitanti di Massalia e del mare Ligustico pescano i tonni con grandi e grossi ami di ferro.
22Lo stesso Eliano51, dopo aver ricordato di aver precedentemente52 detto del modo in cui i tonni entrano ed escono dalla Propontide, descrive la relativa pesca lungo il Ponto Eusino, precisamente nelle città di Eraclea (Bitinia), Tio ed Amastri, pesca stagionale, preparata con l’allestimento di imbarcazioni, reti e di una postazione di avvistamento, sulla quale va a porsi lo σκοπός, abile nell’avvistare l’arrivo dei tonni e nel dirigere la fasi della loro cattura, che avviene a mezzo di un sistema di reti progressivamente stese dalle barche. Il tono della descrizione è epico: lo σκοπός, fornito di σοφία ἀπόρρητος e di φύσις ὄψεως ὀξυωπεστάτη, fa le sue segnalazioni e dirige le manovre come uno στρατηγός che dà il segnale ai soldati o un χορολέκτης53 che dà l’intonazione ai coreuti. I pescatori infine si appropriano dei pesci come se si fossero impadroniti di una città. Per un autore stoicheggiante, anche il mondo marino viene umanizzato. Al di là della dilatazione epica della tecnica descrittiva, si tratta di una pesca realmente praticata anche dagli abitanti di Eretria e Nasso, che, dice Eliano, l’hanno appresa leggendo i libri di Erodoto e di altri autori54. Non completa Eliano la sua descrizione puntuale e sistematica concludendo col momento culminante della cattura dei tonni, cioè della così detta mattanza. Per questo invita a consultare altre fonti. Il cruento evento reale in danno dei tonni attirati nella rete e qui, senza possibilità di scampo, massacrati diventava metafora di ogni carneficina in danno di un avversario assediato e intrappolato senza via di fuga. Tale era la visione dei Persiani intrappolati con le loro navi di grosse dimensioni a Salamina, precisamente nello «stretto» fra Atene e l’isola, e massacrati dai Greci come tonni, secondo la rhesis del messo in Eschilo:
E quelli come tonni o una retata di pesci
con frammenti di remi e pezzi di rottami
li colpivano spezzandogli la schiena,
e un lamento dominava la distesa del mare
finchè l’occhio della notte nera li portò via55.
23Come ha felicemente intuito e dimostrato G. Mastromarco56, la similitudine colpiva sì l’immaginario del pubblico per la sua grandiosità, ma derivava da una realtà oggettiva, la pesca dei tonni, più precisamente dalla sua fase conclusiva, la mattanza che sicuramente era nota ai Greci, ipotizziamo perché praticata nel Bosforo, in uno Stretto d’Oriente. Si può aggiungere che, essendo la carneficina dei Persiani un atto cruento e pertanto —come prassi drammaturgica— non visibile allo spettatore, ma «raccontato» dal messo, la mattanza recava in sé un quid tabuistico tanto da non poter o dover essere descritta né da Oppiano né da Eliano né da Filostrato57. Il loro silenzio può spiegarsi solo come rimozione di un atto ripugnante: ad autori stoicheggianti lo spettacolo cruento della mattanza provocava orrore, da non trasmettere dunque ai propri lettori. Si aggiunga chel’alieutica antica è tesa ad illustrare la τέχνη che impegna la μῆτις del pescatore, in questo caso il convogliare i tonni e l’allestimento della tonnara, non la carneficina, che non impegna nessuna μῆτις: nella rete i pesci sono prigionieri inermi e nell’atto di fiocinarli il pescatore non dà prova di nessuna ἀρετή. È chiaro altresì che la quantità di pesci incappati nelle varie «camere» impediva che la pesca si concludesse «tirando le reti». Eliano, Oppiano e Filostrato lasciano chiaramente intendere che si operava con gli arpioni o tridenti in parossistica tensione al massacro.
24Se la conclusione descrittiva di Eliano58, è una preterizione sulla mattanza, nel capitolo sei, dove indica il luogo di pesca occidentale omologo al Ponto, la Sikelia (il mimo Θυννοθῆρας di Sofrone è la testimonianza evidente che si trattava di pesca famosa e ben praticata nell’isola) e, genericamente, altri luoghi dove esisteva similare ἄγρα, si sofferma su un rituale che avviene durante un preciso momento dell’azione. Quando i pesci sono finiti nella rete (περιπλακέντων), tutti i pescatori innalzano una preghiera a Posidone Ἀλεξίκακος. Perché? si chiede Eliano. Non si tratta di una resa di grazie, bensì di una supplica: si prega il dio affinché né il pesce spada né il delfino si uniscano come compagni di viaggio alla schiera dei tonni59, poiché il primo spezza le reti, permettendo loro di fuoriuscire, e il secondo è molto abile nel rosicchiarle e nello sfuggire.
25La preghiera a Posidone Ἀλεξίκακος, quando i pesci sono finiti nella rete, precede dunque la loro uccisione col conseguente cruento spargimento di sangue. È un momento reale che la tradizione folklorica mantiene. Anche in tempi moderni la mattanza è preceduta da una preghiera alla divinità ed ai Santi60. È opportuno pensare che la mancata descrizione della mattanza può intendersi come la rimozione descrittiva di una fase molto cruenta, un’uccisione collettiva, che macchiava il mare e quindi si configurava come una forma sacrificale empia. Vero è che in tutte le forme di caccia esisteva un legame fra la divinità e la vittima sacrificale. Pertanto, una volta che i tonni venivano raggruppati nella rete, potevano essere identificati come vittime sacrificali, un legame che viene esplicitato attraverso l’arma della mattanza. Infatti, come sostiene O. Longo:
Nel mondo greco la lancia da pesca si presenta nella forma classica del tridente (τριόδους/τρίαινα), la cui destinazione è ritualizzata, in quanto esso è attributo costante di Poseidon61.
26Ξιφίας, nomen omen, è un pesce guerriero, fornito, come è noto, di una spada naturale. Per Oppiano è un κῆτος62 associato al tonno, anch’esso erratico e assillato dall’οἶστρος provocato da un parassita, al τρυγών63 in quanto fornito dagli dei di un’arma letale64.
27Stando ad Oppiano, due sarebbero le modalità di pesca: la prima con la lenza fornita di un amo bicuspide e inescata con un pesce65 senza alcuna indicazione geografica della sua pratica. La più famosa è la seconda, della quale si precisano i luoghi di esercizio:
Molte cose apprestano contro il pescespada i pescatori,
eccellenti quelli che cacciano lungo il mare Tirreno
e intorno a Massalia, città sacra, e intorno ai Celti :
colà infatti immani pescispada dimorano
per nulla simili a pesci, cetacei immensi66.
28Assodato che ξιφίας è un κῆτος oceanico, e come tale è «catalogato» sotto la γενεή dei κύνες67, la perifrasi Τυρσηνὸν ἁλὸς πόρον indica la sua presenza prevalente, dopo un percorso che presuppone la provenienza dall’Oceano, il passaggio dallo Stretto, e quindi l’arrivo nel «mare Tirrenico» con la specifica indicazione di due luoghi di pesca, «nell’ambito marino di Massalia» e in quello dei Celti (Mare Gallicum). Passa quindi Oppiano a descrivere le modalità di cattura degli esemplari in quei luoghi dove ἔκπαγλοι e ἄπλατοι, per nulla simili a pesci, stazionano ξιφίαι μεγακήτεες. Passa quindi Oppiano a descrivere le modalità di cattura in quei luoghi indicati (vv. 547-597). I pescatori costruiscono delle barche pisciformi fornite di spada e le calano in mare. Ξιφίας, tratto in inganno dai modelli lignei, viene trafitto dal tridente e catturato. Spesso, anche se ferito, dimenandosi, conficca la sua spada sullo scafo delle barche, ma i pescatori con uno strumento di ferro gli amputano la spada «naturale», nella quale sarebbe concentrata tutta la sua forza. Orbato di questa, muore. Si tratterebbe quasi di un duello pescatore contro pesce, nel quale vengono impiegate, dall’una e dall’altra parte, «armi» belliche! Per rendere verisimile la cattura con il δόλος sopra descritto, Oppiano incastona (vv. 560-566) una similitudine d’ambito militare, per la verità piuttosto ardita, con la quale certifica che, come quella del tonno, la cattura di ξιφίας è una forma di predazione paragonabile ad una operazione bellica: i pesci spada vengono assimilati agli assediati di una città che aprono le porte agli assedianti, ingannati da questi che rivestono le armi dei loro compatrioti caduti. L’uso del plurale al verso 547 sembra riferirsi a una pesca di più esemplari, catturati grazie ad una operazione collettiva di circuizione68. Si verifica cioè una piccola forma di mattanza esercitata in danno di uno o un numero piccolo di esemplari. La postazione di pesca, stando ai versi 555-559, è la barca. Impigliato nella rete, ξιφίας, vittima della sua ἀφροσύνη in quanto si è lasciato ingannare dai modellini lignei, viene tratto sulla spiaggia a forza di arpioni e finito con colpi sulla testa (vv. 567-575). È quella stessa ἀφροσύνη che coinvolge anche lo sgombro e il grasso tonno (v. 576). Con quest’ultimo condividerebbe il percorso d’entrata dall’Oceano, attraverso lo Stretto, nel mare Tirreno (il «nostro» mare) e la triste fine a mezzo di arpione o tridente.
29L’omologia con la pesca del tonno consiste, dunque, nel suo esercizio contro un esemplare di grossa mole (quindi di provenienza oceanica), nell’essere una pesca collettiva in danno di pesci migratori che si muovono a schiera, effettuata con particolare perizia e astuzia. In essa l’azione umana è prevalente sul δόλος/esca, quasi uno scontro bellico, un duello fra un esercito acquatico e dei valorosi combattenti. È la tipologia di pesca69 che Eliano70 chiama κόντωσις, pesca con la fiocina, definita ἀνδρειοτάτη poiché il pescatore deve essere molto forte e disporre di attrezzatura adeguata. Il luogo dell’azione non è molto lontano dal litorale, anzi vicino. Gli esemplari vengono catturati nella «vicinanza» di uno Stretto, come dimostrato da tutti i territori o le città indicate per entrambi dalle fonti antiche.
30Ma prima che nella testimonianza di Oppiano, il destino di xiphias si incrocia con quello del tonno nello Stretto di Scilla e Cariddi, secondo il racconto di Polibio (tramandato da Strabone)71, quando, per asseverare la veridicità geografica di quanto detto da Omero sui viaggi di Odisseo, lo storico, soffermandosi sul promontorio di Scilla, afferma72:
E ciò che [Omero] dice di Scilla si accorda bene con quanto accade intorno allo scoglio scilleo e alla caccia dei galeoti: colà, spiando tutt’intorno lo scoglio, pesca delfini, cani e se gli capiti anche di catturare una bestia più grande [= Odissea, XII, 95-97]. Infatti i tonni che procedono a schiera lungo le coste dell’Italia, quando discendono e sono impediti dal toccare la Sicilia, s’imbattono in animali più grandi, quali delfini, cani e altri cetacei; e della loro caccia ingrassano i galeoti, che sono detti anche pescespada e cani.
31Nell’ambito di questo discorso Polibio continua descrivendo la pesca dei galeoti/pesci spada che viene praticata presso il promontorio Scilleo73. Un solo σκοπός sta di vedetta, gli altri stanno su piccole barche a due remi. Avvistato il pesce, la vedetta dà il segnale ai compagni della barca, l’uno dei quali rema in direzione del pesce mentre il secondo tiene in mano una fiocina, con la quale, raggiunto l’esemplare, lo arpiona. La fiocina è fatta di una punta metallica non fissa, ma applicata all’estremità dell’asta lignea e legata ad una cordicella. Una volta che il lancio la conficca nella cute del pesce, la sua conformazione ad uncino ne impedisce la fuoriuscita e l’asta può essere ritirata. Il pesce, che si dimena fino a dissanguarsi, viene trattenuto dalla cordicella ed esanime, infine, tirato in barca. Ma, prosegue Polibio:
Accade poi talvolta che il rematore sia ferito attraverso la barca per la grandezza della spada dei galeotti: per il vigore della bestia questa caccia somiglia a quella del cinghiale […]. Da ciò si potrebbe congetturare che secondo Omero l’errare di Odisseo fu intorno alla Sicilia, perché attribuisce a Scilla tale pesca, che è massimamente propria dello scoglio scilleo, e perché le cose dette intorno a Cariddi s’accordano con i fenomeni che avvengono nello Stretto. E ciò che avviene nell’isola di Meninge è consone con quanto è detto intorno ai Lotofagi74.
32Il racconto di Polibio — benché sintesi dall’originale — trova delle analogie con la pesca del tonno nel Ponto quale descritta da Eliano, soprattutto per la presenza in ambedue dello σκοπός (non dice dove) sulle imbarcazioni, qui piccole e con due uomini a bordo. Stanno all’ancora, finché la vedetta non avvista il pesce. Allora nella barca uno rema, l’altro sta dritto a prora con la fiocina in mano pronto a colpire il pesce da vicino. Descrive con dovizia di particolari l’arpione (omologo al tridente del tonno). Come in Oppiano, viene annoverata la possibilità che per la lunghezza della spada il pesce riesca a ferire il rematore e a trapassare lo scafo. Di rilievo l’osservazione finale secondo la quale i galeoti/pesci spada, per la grandezza dello ξίφος e il vigore, sono assimilati ai cinghiali quanto a modalità di cattura. È la prova che la pesca/caccia di ξιφίας è una forma di predazione nobile come la caccia al cinghiale, quindi atletica, eroica, nel senso che comporta un’ἀρετή particolare75.
33Il delfino è detto μεγακήτης già in Omero76, nel contesto di una celebre similitudine. Come si è visto, la letteratura scientifica annovera anche il delfino tra i κήτη. Oppiano abbonda di notizie, per la verità piuttosto singolari. I delfini sono grandemente onorati da Posidone, poiché segnalarono al dio, che la voleva possedere contro la sua volontà, la presenza nell’Oceano di Anfitrite, figlia di Nereo. Così egli poté farla sua sposa. In cambio Posidone fece dei delfini i suoi ministri e messaggeri, tributando loro grande τιμή77. Sono pesci gregari, ἵμερον ἅλμης (v. 673); partoriscono figli in tutto simili ai genitori (vv. 644 sqq.), ai quali i piccoli sempre si accompagnano per non essere attaccati (v. 684); primeggiano fra i pesci per amore filiale (v. 732); nel Ponto Eusino si trovano soltanto pochi delfini, che — precisa il poeta — sono i più deboli della stirpe dei κήτη (v. 610).
34Al delfino Oppiano dedica la lunga sezione di Halieutika78, nella quale sottolinea ancora una volta l’eccellente suo primato sugli altri pesci: i delfini non hanno inimicizie, uniche ad attaccarli sono le ἄμιαι. Oppiano descrive con dovizia di particolari il duello fra le due specie, duello che vede il delfino soccombere.
35Sulla δελφίνων ἄγρη si diffonde in Halieutika79, un excursus lungo e quasi autonomo nell’economia del poema. È una caccia ἀπότροπος, abominevole, e chi la pratica è empio verso gli dei e la famiglia. I delfini nel loro sentire sono simili agli uomini, uniti da un ethos genetico di solidarietà (vv. 416-424). Ne è prova la loro collaborazione con i pescatori con la lampara dell’Eubea, poiché fanno emergere i pesci convogliandoli verso i fiocinatori80. Ricevono per questo servizio parte del pescato. Ma se qualcuno usa loro violenza essi non sono più di ausilio (vv. 425-447). Come exempla della φιλία a iosa profusa, Oppiano innesta il mito di Arione e del delfino e dell’amicizia del delfino col bambino (vv. 418-498). Ai nostri fini interessano i versi 519-597, la caccia del delfino praticata dai Traci, e dagli abitanti intorno a Bisanzio, descritti nelle loro abominevoli usanze:
I tracotanti Traci e quanti abitano la città
di Bisanzio cacciano con durezza d’animo.
Davvero ferocemente scellerati ed empi!
Non i figli risparmierebbero né i padri
e a cuor leggero distruggerebbero i fratelli.
Tale usanza di dolorosa caccia essi hanno81.
36Questo lo svolgimento della δυστερπὴς ἄγρη. I delfini partoriscono, simili agli umani, due gemelli. I Traci preparano un’asta leggera per catturarli. Essi sono fiduciosi nell’uomo, anzi, quasi lieti per l’avvicinarsi della veloce barca, non temono l’imminente pericolo. I pescatori colpiscono con quel tridente che chiamano ἀκίς uno dei due cuccioli, ma non lo recuperano sulla barca, bensì gli danno corda perché il piccolo sarebbe misera preda: puntano a catturare la madre, poiché sanno che essa non abbandonerebbe mai il figlio ferito; anzi, come una madre di una città distrutta che vede i figli minacciati dalla lancia (vv. 553-555), “apostrofa” il figlio alla fuga (vv. 560-564). Il delfino-madre segue da vicino il figlio andando incontro al volontario destino di morte, uccisa (v. 572) dagli ἀνάρσιοι e μέγ᾽ ἀλιτροί pescatori. Anche e soprattutto per l’empia pesca del delfino, che è orribile tanto per gli antichi, tanto per i moderni, tutta l’attenzione del poeta verso questa specie alieutica si sostanzia di mirabilia tra mito e folklore, in riferimento soprattutto all’ethos del pesce. Il tutto non esclude la realtà: i Traci si cibavano veramente del delfino, secondo la testimonianza di Senofonte82, il quale racconta che i Greci nel saccheggio della Metropoli dei Mossineci, abitanti della costa del Ponto ad ovest di Trapezunte, scovarono nelle case anche tranci di delfino conservati sotto salamoia in anfore nonché vasi di grasso del medesimo pesce, che questa bizzarra popolazione impiegava come i Greci impiegavano l’olio.
37Il racconto paradossografico dei delfini συνεργοί dei pescatori nel mare dell’isola di Eubea è speculare alla narrazione della pesca empia praticata in loro danno dai Traci. Ma al di là dell’empietà dei pescatori, la alieutica della δελφίνων ἄγρη ha omologia con quella a ξιφίας per gli instrumenta usati (la barca e l’arpione/tridente), il lasciar correre la bestia ferita, nella fattispecie per catturare la madre accorsa in soccorso del cucciolo, così come si racconta che pure i pescatori dello Stretto danno corda a ξιφίας fiocinato, anche perché, nuotando i pesci spada quasi sempre in coppia, il maschio non abbandona mai la femmina colpita, fino a farsi anch’esso catturare. Mirabili exempla di amore materno l’uno, coniugale l’altro!
38Al di là delle affabulazioni, le modalità delle tecniche di pesca negli Stretti tramandate dalle fonti antiche, persistenti, pur meccanizzate, anche nel mondo moderno, lasciano individuare la loro realtà, anche quando il paradossale sembra oscurare i nuclei archetipici. C’è soltanto da ribadire che il corollario di manifestazioni folklorico-rituali e la credenza che il mare, forza primordiale, nutra nei suoi recessi figure mostruose e fantastiche si perpetua oltre la classicità. Nel Fretum Siculum nel Medioevo trova dimora la Fata Morgana83, e a proposito del Tritone, trombettiere di Posidone, la cui esistenza veniva riferita come vera, secondo Plinio, da un’apposita ambasceria a Tiberio (l’imperatore che amava Capri, isola situata in uno Stretto), essa ancora nel xvi secolo era attestata anche a Bisanzio, città dello «Stretto orientale». Ne dà notizia Francesco Maurolico, matematico e scienziato messinese84, il quale nel Tractatus per epistolam ad Petrum Gillium. De piscibus Siculis (1453), in una precisa sezione dello stesso titolata «Monstra» (ovviamente dello Stretto) riferisce una notizia di Costantino Lascaris:
Infine tanta è la varietà della natura giocosa negli animali acquatici a causa dell’esuberanza dell’umore, che parecchi pensano che Tritoni, Scille, Nereidi e tutti gli altri mostri marini non siano per nulla fantastici. Tuttavia essi sono rarissimi nei nostri mari, dimorano quindi per l’innata astuzia nelle profondità più basse e più sicure. Io ho visto a Messina pescato un pesce d’aspetto meraviglioso, con una bocca orrenda, dotato di pinne quasi fossero mani. Ci ha riferito Costantino Lascaris, uomo dotto in greco e in latino, costantinopolitano di patria, che un giorno partì dalla sua città per il Ponto Eusino, e colà, in una cittadina, fu accolto e invitato a cena in casa di un tale fra i maggiorenti del luogo. Chiedendo egli dopo cena all’ospite informazioni sullo squisitissimo cibo che gli era stato approntato, fu condotto nei locali inferiori della dimora e vide esibito un pesce che presentava dalla testa fino all’ombelico aspetto quasi umano, nella parte più bassa era un pesce: questo, legato ad una colonna, percosso con un bastoncino, emise una voce acuta. Dunque la pietanza che aveva gustato a tavola, era stata preparato con tale genere di pesce85.
39E quanto la realtà della vita acquatica e la dura attività degli uomini di mare negli Stretti spesso si sublimi nel fantastico sino a generare veri e propri mirabilia è ancora e ulteriormente testimoniato nel secolo scorso da Horcynus orca, il ponderoso romanzo di Stefano D’Arrigo, nel quale vive l’epica rappresentazione dell’eterna lotta dell’uomo degli Stretti contro gli avversari e avversità naturali che li popolano.
Notes de bas de page
1 La Penna, 2004; Longo, 1989, pp. 37-40.
2 219 sqq.
3 Mair, 1963, p. xxxviii.
4 Leges, 823 sqq.
5 Senofonte, Cynegeticus, 12-13.
6 Vedi Teocrito, 21, e la serie di epigrammi dell’Anthologia Palatina, VI, 11-16, 179-187, nonché le Lettere di pescatori di Alcifrone.
7 Collet, 1993, p. 31 e n. 5.
8 Odissea, XII, 92-98.
9 Plinio, IX, 2: «In mari autem, tam late supino mollique ac fertili nutrimento, accipiente causas genitales e sublimi semperque pariente natura pleraque etiam monstrifica reperiuntur». Tutte le traduzioni sono dell’autore.
10 Ibid., XXXII, 53: «Profecto conveniet non posse omnia genera in contemplationem universam vocari. At, Hercules, in tanto mari oceanoque quae nascuntur certa sunt, notioraque, quod miremur, quae profundo natura mersit. Ut a beluis ordiamur, arbores, physeteres, ballaenae, pistrices, Tritones, Nereides, elephanti, homines qui marini vocantur, rotae, orcae, arietes, musculi et alii piscium forma arietes, delphini celebresque Homero vituli [= Odissea, IV, 436], luxuriae vero testudines et medicis fibri […], iam caniculae, drinones, cornutae, gladii, serrae, communesque terrae, mari, amni hippopotami, crocodili, et amni tantum ac mari thynni, thynnides, siluri, coracini, percae».
11 Ibid., IX, 3: «Maximum animal in Indico mari pristis et ballaena est, in Gallico oceano physeter, ingentis columnae modo se attollens altiorque navium velis diluviem quandam eructans, in Gaditano oceano arbor, in tantum vastis dispansa ramis, ut ex ea causa fretum numquam intrasse credatur. Apparent et rotae appellatae a similitudine, quaternis distinctae hae radiis, modiolos earum oculis duobus utrimque claudentibus».
12 Ibid., IX, 4: «Visum auditumque in quodam specu concha canentem Tritonem qua noscitur forma. Et Nereidum falsa non est, squamis modo hispido corpore etiam qua humanam effigiem habet. Namque haec in eodem spectata litore est, cuius morientis etiam cantum tristem accolae audivere longe, et Divo Augusto legatus Galliae conplures in litore apparere exanimes Nereidas scripsit. Auctores habeo in equestri ordini splendentes, visum ab iis in Gaditano oceano marinum hominem toto corpore absoluta similitudine; ascendere eum in navigia nocturnis temporibus statimque degravari quas insederit partes et, si diutius permaneat, etiam mergi. Tiberio principe contra Lugdunensis provinciae litus in insula simul trecentas amplius beluas reciprocans destituit oceanus, mirae varietatis et magnitudinis, ne pauciores in Santonum litore interque reliquas elephantos et arietes candore tantum cornibus adsimulatis, Nereidas vero multas. Turranius prodidit expulsam beluam in Gaditana litora, cuius inter duas pinnas ultimae caudae cubita sedecim fuissent, dentes eiusdem cxx, maximi dodrantium mensura, minimi semipedum».
13 Ibid., XXXII, 53.
14 Ibid., IX, 3.
15 Nel paragone urgeva forse nella mente di Plinio la nozione delle Στῆλαι terrestri?
16 L’eccezionale altezza del physeter, rapportata ad una nave e al suo alto velame, poteva essere comune nell’immaginario degli antichi poiché anche Oppiano, Halieutika, V, 56-59, afferma che i κήτη incutono timore alle navi nel mare Iberico occidentale quando, lasciato il vicino Oceano, lì si aggirano simili a navi di venti remi!
17 Per l’identificazione di physeter, arbor e rota, vedi Battiato, 2012, rispettivamente pp. 12, 19, 20.
18 Plinio, IX, 4, 9-11.
19 Per la probabile identificazione di Triton (bue marino), Nereides (iguane), homo marinus (lamantino, dugongo), vedi Battiato, 2012, rispettivamente pp. 18, 22 e 17.
20 Plinio, IX, 5: «Ballaenae et in nostra maria penetrant. In Gaditano oceano non ante brumam conspici eas tradunt, condi autem statis temporibus in quodam sinu placido et capaci, mire gaudentes ibi parere. Hoc scire orcas, infestam iis beluam et cuius imago nulla repraesentatione exprimi possit alia quam carnis immensae dentibus truculentae. Inrumpunt ergo in secreta ac vitulos earum aut fetas vel etiamnum gravidas lancinant morsu incursuque ceu Liburnicarum rostris fodiunt. Illae ad flexum immobiles, ad repugnandum inertes et pondere suo oneratae, tunc quidem et utero graves pariendive poenis invalidae, solum auxilium novere in altum profugere et se tuto defendere oceano. Contra orcae occurrere laborant seseque opponere et caveatas angustiis trucidare, in vada urguere, saxis inlidere. Spectantur ea proelia ceu mari ipso sibi irato, nullis in sinu ventis, fluctibus vero ad anhelitus ictusque quantos nulli turbines volvant».
21 Ancora una volta, come in Plinio, IX, 3-4 e in Oppiano, Halieutika, V, 59 ricorre il paragone mostro ~ nave anche se per un particolare anatomico, la dentatura-remi.
22 Sul termine κῆτος, indicante qualsiasi pesce di dimensione spropositata (cfr. già Omero, Odissea, XII, 96-97) vedi Zucker, 1997.
23 Vedi Eliano, De natura animalium, XIII, 16.
24 Così Ateneo, VII, 63 [302a].
25 Ἄγρα/θῆρα sono termini omologhi: vedi Longo, 1989, pp. 35-36.
26 Aristotele, Historia animalium, V, 9 [543a].
27 Ibid., V, 31 [557a]; VIII, 19 [601b].
28 Ibid., VIII, 13 [598b]; VIII, 15 [599b].
29 Eliano, De natura animalium, XI, 42.
30 Eschilo, Fragmenta, ed. Radt, fr. 308.
31 Ateneo, VI, 302; V, 557a; VII, 543a e VII, 598b rispettivamente.
32 Plinio, IX, 47-54.
33 Ibid., IX, 49.
34 Che i tonni non frequentino Hispaniae cetarias (si noti il termine tecnico specifico: non dice vivaria!) è un errore di Plinio. I tonni, provenienti dall’Oceano, a primavera attraverso lo stretto di Gibilterra entrano nel Mare Mediterraneo, diretti verso il Ponto. In realtà vengono pescati anche lungo le coste portoghesi e spagnole. Forse Plinio, considerando le dimensioni dei tonni maggiori di quelle degli sgombri, pensa, piuttosto ingenuamente, che essi non possano dimorare nei vivai.
35 Ibid., IX, 50-53: «Est in euripo Thracii Bospori, quo Propontis Euxino iungitur, in ipsis Europam Asiamque separantis freti angustiis saxum miri candoris, a vado ad summa perlucens, iuxta Calchedonem in latere Asiae. Huius aspectu repente territi semper adversum Byzantii promunturium, ex ea causa appellatum Aurei Cornus, praecipiti petunt agmine. Itaque omnis captura Byzantii est, magna Calchedonis penuria, M passibus medii interfluentis euripi. Opperiuntur autem aquilonis flatum, ut secundo fluctu exeant e Ponto, nec nisi intrantes portum Byzantium capiuntur. Bruma non vagantur; ubicumque deprehensi, usque ad aequinoctium ibi hibernant. Iidem saepe navigia velis euntia comitantes mira quadam dulcedine per aliquot horarum spatia et passuum milia a gubernaculis spectantur, ne tridente quidem in eos saepius iacto territi. Quidam eos, qui hoc e thynnis faciant, pompilos vocant. Multi in Propontide aestivant, Pontum non intrant […]. Thynnorum captura est a vergiliarum exortu ad arcturi occasum. Reliquo tempore hiberno latent in gurgitibus imis, nisi tepore aliquo evocati aut pleniluniis. Pinguescunt et in tantum, ut dehiscant. Vita longissima iis bienni».
36 Fonte comune anche di Eliano, vedi Rebuffat, 2001, pp. 28-34.
37 Oppiano, Halieutika, I, 360-382.
38 Ibid., V, 46-61.
39 vv. 56-62: «Πολλάκι καὶ νήεσσιν ἄγει δέος ἀντιόωντα / ἑσπέριον κατὰ πόντον Ἰβηρικόν, ἔνθα μάλιστα / γείτονος ὠκεανοῖο λελοιπότ᾽ ἀθέσφατον ὕδωρ / εἱλεῖται, νήεσσιν ἐεικοσόροισιν ὁμοῖα./πολλάκι δὲ πλαγχθέντα καὶ ᾐόνος ἐγγὺς ἱκάνει / ἀγχιβαθοῦς· ὅτε κέν τις ἐπὶ σφίσιν ὁπλίζοιτο».
40 Oppiano dedica particolare attenzione ai percorsi del tonno e alla sua etologia. Vedi Halieutika, I, 181-182: θύννοι e ξιφίαι e la stirpe delle orche sono accomunati nell’essere pesci erratici; III, 184 il pesce pilota del tonno è il κορακῖνος; I, 756 sqq. niente è più ingiusto né superiore per malevolenza nel mare della θύννη, la femmina del tonno, perché appena partorisce divora le uova; II, 506-520 θύννος e ξιφίας sono associati nell’essere punti dall’οἶστρος, per il dolore provato e la reazione (dimenarsi dell’uno, urtare contro le navi dell’altro); III, 191 συμπάθεια del κάλλιχθυς per il tonno; III, 576 ἀφροσύνη del tonno associato allo σκόμβρος; III, 596-604 tonno associato ancora per ἀφροσύνη allo σκόμβρος: per cupio dissolvi entrambi si impigliano con i denti nella rete che tentano di divorare.
41 Ibid., III, 620-628: «Θύννων αὖ γενεὴ μὲν ἀπ᾽ εὐρυπόροιο τέτυκται/ ὠκεανοῦ· στείχουσι δ᾽ ἐς ἡμετέρης ἁλὸς ἔργα,/ εἰαρινοῦ μετὰ λύσσαν ὅτ᾽ οἰστρήσωσι γάμοιο./ τοὺς δ᾽ ἤτοι πρῶτον μὲν Ἰβηρίδος ἔνδοθεν ἅλμης/ ἀνέρες ἀγρώσσουσι βίῃ κομόωντες Ἴβηρες,/ δεύτερα δ᾽ Ἠριδανοῖο παρὰ στόμα θηρητῆρες/ Κελτοὶ Φωκαίης τε παλαίφατοι ἐνναετῆρες·/ τὸ τρίτον ἀγρώσσουσιν ὅσοι Τρινακρίδι νήσῳ/ ἐνναέται πόντου τε παρ᾽ οἴδμασι Τυρσηνοῖο».
42 Ibid., III, 648: ἀφνειὴ δὲ καὶ ἔξοχος ἄγρη.
43 Sul θυννοσκοπεῖον e la tonnara dall’antichità ai tempi moderni vedi l’esaustivo saggio di Felici, 2012. Sostiene l’omologia delle due postazioni di avvistamento (ἡμεροσκοπεῖον ~ θυννοσκοπεῖον) Fernández Nieto, 2002.
44 Eliano, De natura animalium, XV, 5-6.
45 Imagines, I, 13.
46 Vedi Mastromarco, 1998, p. 232.
47 Oppiano, Halieutika, III, 637-640.
48 Calvo Delcán, 1990, pp. 26.
49 Oppiano, Halieutika, III, 648.
50 Eliano, De natura animalium, XIII, 16.
51 Ibid., XV, 5-6.
52 Ibid., IX, 42.
53 La similitudine dello σκοπός rapportato al χορολέκτης è spia della persistenza dell’usanza in età moderna degli ordini dati in modo cadenzato, anche se nella fase conclusiva della pesca, dal raìs della tonnara.
54 Sulla «formazione letteraria» dei pescatori di Eretria e Nasso ci permettiamo di dubitare fortemente!
55 Persae, 424-428: «Τοὶ δ᾽ ὥστε θύννους ἤ τιν᾽ ἰχθύων βόλον/ ἀγαῖσι κωπῶν θραύμασίν τ᾽ ἐρειπίων/ ἔπαιον ἐρράχιζον, οἰμωγὴ δ᾽ ὁμοῦ/ κωκύμασιν κατεῖχε πελαγίαν ἅλα,/ ἕως κελαινὸν νυκτὸς ὄμμ᾽ ἀφείλετο».
56 Vedi Mastromarco, 1998, il quale, partendo dalle testimonianze edifagetiche presenti nella commedia greca, ha passato in rapida rassegna tutte le fonti antiche che riguardano il tonno e le forme in cui si svolgeva la relativa pesca, soffermandosi in particolare su Eliano, De natura animalium, XV, 5-6 e Filostrato, Imagines, I, 13, sul ruolo particolare del thynnoskopos, sulla tonnara «mobile» e sulla preterizione sulla mattanza. Vedi inoltre Torre, 1999, pp. 9-33.
57 Filostrato, Imagines, I, 13.
58 Eliano, De Natura animalium, XV, 5.
59 Ancora una testimonianza sull’associazione di tre esemplari di tre κήτη.
60 Vedi Basile, 2012, pp. 45-50 e in particolare p. 66, dove viene riportato il canto-preghiera «Aja mola» (= «Vai, padrone!») di invocazione a Gesù Salvatore e ai Santi che «si cantava mentre si tirava la rete di fondo della camera della morte, poco prima della mattanza».
61 Longo, 1989, p. 28.
62 Oppiano, Halieutika, I, 182.
63 Ibid., II, 506 e 462-469.
64 Così anche Eliano, De natura animalium, IX, 40; 14, 23.
65 Oppiano, Halieutika, III, 529-541.
66 Ibid., III, 543-546: «Ἔξοχα δ᾽ οἳ Τυρσηνὸν ἁλὸς πόρον ἀγρώσσουσιν/ ἀμφί τε Μασσαλίην, ἱερὴν πόλιν, ἀμφί τε Κελτούς·/κεῖθι γὰρ ἔκπαγλοί τε καὶ ἰχθύσιν οὐδὲν ὁμοῖοι/ ἄπλατοι ξιφίαι μεγακήτεες ἐννεμέθονται».
67 Ibid., I, 379.
68 Ibid., I, 552: πάντῃ κυκλώσωνται.
69 Per le varie tipologie e il relativo uso di instrumenta, vedi Zumbo, 1991.
70 Eliano, De Natura animalium, XII, 43.
71 Polibio, XXXIV, 2, 12-15; Strabone, I, 2, 9, 20.
72 «Καὶ τοῦτο δ᾿ οἰκείως εἰρῆσθαι τοῖς συμβαίνουσι περὶ τὸ Σκύλλαιον καὶ τὴν θήραν τῶν γαλεωτῶν, τὸ ἐπὶ τῆς Σκύλλης, αὐτοῦ δ᾿ ἰχθυάᾳ, σκόπελον περιμαιμώωσα, δελφῖνάς τε κύνας τε καὶ εἴ ποθι μεῖζον ἕλῃσι κῆτος [= Odissea, XII, 95-97]. Τοὺς γὰρ θύννους ἀγεληδὸν φερομένους παρὰ τὴν Ἰταλίαν, ἐπειδὰν ἐκπέσωσι καὶ κωλυθῶσι τῆς Σικελίας ἅψασθαι, περιπίπτειν τοῖς μείζοσι τῶν ζῴων, οἷον δελφίνων καὶ κυνῶν καὶ ἄλλων κητωδῶν, ἐκ δὲ τῆς θήρας αὐτῶν πιαίνεσθαι τοὺς γαλεώτας, οὓς καὶ ξιφίας λέγεσθαι καὶ κύνας φησί».
73 La tecnica di pesca di ξιφίας praticata dagli antichi ai moderni è ampiamente illustrata, con buon utilizzo delle fonti classiche e moderne, da Collet, 1993, e da Sisci, 2005.
74 «Συμβαίνειν δέ ποτε καὶ τιτρώσκεσθαι διὰ τοῦ σκαφιδίου τὸν κωπηλάτην διὰ τὸ μέγεθος τοῦ ξίφους τῶν γαλεωτῶν καὶ τὸ τὴν ἀκμὴν τοῦ ζῴου συαγρώδη εἶναι καὶ τὴν θήραν». Rispetto al suo assunto inziale conclude: «Ἔκ τε δὴ τῶν τοιούτων εἰκάζοι τις ἄν, φησί, περὶ Σικελίαν γενέσθαι τὴν πλάνην κατὰ τὸν Ὅμηρον, ὅτι τῇ Σκύλλῃ προσῆψε τὴν τοιαύτην θήραν, ἣ μάλιστ᾽ ἐπιχώριός ἐστι τῷ Σκυλλαίῳ, καὶ ἐκ τῶν περὶ τῆς Χαρύβδεως λεγομένων ὁμοίων τοῖς τοῦ πορθμοῦ πάθεσι. Τὸ δὲ τρὶς μὲν γάρ τ᾽ ἀνίησιν ἀντὶ τοῦ δὶς γραφικὸν εἶναι ἁμάρτημα ἢ ἱστορικόν. Καὶ τὰ ἐν τῇ Μήνιγγι δὲ τοῖς περὶ τῶν Λωτοφάγων εἰρημένοις συμφωνεῖν».
75 Ciò verrà certificato più tardi da Eliano, De natura animalium, XII, 43.
76 IliadeXXI, 22.
77 Oppiano, Halieutika, I, 383-393.
78 Ibid., II, 533-641.
79 Ibid., V, 519-589.
80 Oppiano ha presente un’opera d’arte figurativa in cui è rappresentata la scena da lui descritta?
81 Ibid., V, 521-525: «Θρήικες ὑβρισταὶ καὶ ὅσοι Βύζαντος ἔχουσιν/ ἄστυ σιδηρείοισι νοήμασιν ἀγρώσσουσιν,/ ἦ μέγ᾽ ἀταρτηροὶ καὶ ἀτάσθαλοι· οὐδέ κε παίδων,/ οὐ πατέρων φείσαιντο, κασιγνήτους δ᾽ ὀλέκοιεν/ ῥηιδίως· τοῖος δὲ νόμος δυστερπέος ἄγρης».
82 Anabasis, V, 4, 28.
83 Su miti e mostri dello Stretto di Messina vedi Radici Colace, 1999.
84 Vedi Moscheo, 2008.
85 Edito da Sestini, 1807, pp. 285-313: «Denique tanta est ludentis naturae varietas in aquaticis animantibus propter humoris exuberantiam, ut nonnulli Tritones, Scyllas, Nereides, et caetera maris Monstra minime esse fabulosa opinentur. Ea tamen in nostris maris rarissima, tum innata versutia in profundissimis, tutioribusque locis degere. Vidi ego Messanae piscem mirabilis formae captum, ore horribili, pinnisque quasi manibus praeditum. Retulit nobis Constantinus Lascaris, vir graece latineque peritus, patria Constantinopolitanus, se quondam ex urbe sua in Euxinum pelagus profectum, ibique in oppido quodam, in aeditus viri cujusdam e primatibus loci susceptum ac coenatum. Cum post coenam de suavissimo esculento quod appositum fuerat percuntaretur ab hospite, ad aedium inferiora ductum, vidisse monstratum sibi piscem, qui a capite umbilico tenus humanam pene figuram referret, postrema parte piscem: hunc columnae alligatum, bacillo percussum, acutam vocem edidisse. Porro epulum, quod in mensa gustasset, ex ejus speciei piscem fuisse confectum».
Auteur
Università degli Studi di Messina
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