Me stesso piango, e de la propria morte
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Apparecchio l’esequie anzi ch’io pera:
Ch’ognor in vista fera
M’appar davanti, e ’l cor di tema agghiaccia:
5Chiaro indicio che già l’ultima sera
S’appressi, e ’l fin di mia giornata apporte.
Nè piango, perchè sorte
Larga e benigna abbandonar mi spiaccia;
Anzi or con più che mai turbata faccia
10Fortuna provo a farmi oltraggio intenta.
Ma, se in cotal pensier l’anima immersa
Geme, e lagrime versa,
E del su’ amato nido uscir paventa,
Natura il fa, che per usata norma
15L’immagine di Morte orribil forma.
Lasso me, che quest’alma e dolce luce,
Questo bel ciel, quest’acre onde respiro,
Lasciar convegno; e miro
Fornito il corso di mia vita omai.
20E l’esalar d’un sol breve respiro
A’ languid’occhi eterna notte adduce:
Nè per lor mai più luce
Febo, o scopre per lor più Cintia i rai.
E tu lingua, e tu cor, ch’i vostri lai
25Spargete or meco in dolorose note,
E voi, piè giunti a’ vostri ultimi passi,
Non pur di spirto cassi
Sarete, e membra d’ogni senso vote;
Ma dentro a la funesta, oscura fossa
30Cangiate in massa vil di polve e d’ossa.
O di nostre fatiche empio riposo,
E d’ogni uman sudor mèta infelice,
Da cui torcer non lice
Pur orma, nè sperar pietade alcuna!
35Che val, per ch’altri sia chiaro e felice
Di gloria d’avi, o d’oro in area ascoso,
E d’ogni don gioioso
Che natura può dar larga, e fortuna,
Se tutto è falso ben sotto la luna,
40E la vita sparisce a lampo eguale
Che subito dal cielo esca e s’asconda,
E, s’ove è più gioconda,
Più acerbo scocca Morte il crudo strale?
Pur ier misero io nacqui, et oggi il crine
45Di neve ho sparso, e già son giunto al fine.
Nè per sì corta via vestigio impressi
Senz’aver di mia sorte onde lagnarme:
Chè da l’empia assaltarme
Vidi con alte ingiurie a ciascun varco,
50Contro la qual da pria non cbbi altr’arme
Che lagrime, e sospir da l’alma espressi.
Poi de’ miei danni stessi
L’uso a portar m’agevolò l’incarco.
Quinci a studio non suo per forza l’arco
55Rivolto fu del mio debile ingegno
Tra ’l roco suon di strepitose liti;
Ove i dì più fioriti
Spesi: e par che ’l prendesse Apollo a sdegno:
Chè se fosser già sacri al suo bel nome
60Forse or di lauro andrei cinto le chiome.
Ma qual colpa n’ebb’io, se ’l cielo avverso
Par che mai scmpre a’ bei desir contenda?
E virtù poco splenda
Se luce a lei non dan le gemme e l’oro?
65Nè quanto il dritto e la natura offenda
S’accorge il mondo in tale error sommerso.
Al qual anch’io converso
De le fortune mie cereai ristoro:
Ben che parco bramar fu ’l mio tesoro,
70Con l’alma in sè di libertà sol vaga,
E d’onest’ozio più che d’altro ardente:
Resa talor la mente,
Quasi per furto, infra le Muse paga,
Che, de’ prim’anni miei dolci nodrici,
75Fur poi conforto a’ miei giorni infelici.
Un ben, ch’ogni mal vinse, il ciel mi diede,
Quando degnò de la sua grazia ornarmi
L’alta mia Patria, e farmi
Servo a sè, noto altrui, caro a me stesso.
80Onde umil corsi, ov’io sentii chiamarmi,
A più nobil cammin volgendo il piede.
Così a l’ardente fede
Pari ingegno e valor fosse concesso,
O pria sì degno peso a me commesso,
85Che saldo almen sarebbe in qualche parte
L’infinito dover che l’alma preme.
Quinci in quest’ore estreme
Ella con maggior duol da me si parte,
Ch’ove a l’obbligo scior la patria invita
90Non pon mille bastar, non ch’una vita.
Dunque, s’ora il mio fil tronca la dura
Parca, quanti ho de’ miei più cari e fidi,
Amor cortese guidi
Al marmo, in ch’io sarò tosto sepolto:
95E la pietà, ch’in lor mai sempre vidi,
Qualche lagrima doni a mia sventura.
E, se pur di me cura
Ebbe mai Febo, anch’ei con mesto volto
Degni mostrarsi ad onorar rivolto
100Un fedel servo, onde rea morte il priva.
Prestin le Muse ancor benigno e pio
Officio al cener mio:
E su la tomba il mio nome si scriva,
Accio, se ’l tacerà, d’altro onor casso,
105La fama, almen ne parli il muto sasso.
Andresti e tu, più ch’altri afflitto e smorto,
A versar sovra me tuo pianto amaro,
Mio germe unico e caro,
S’in tua tenera età capisse il duolo.
110Ahi che simile al mio destino avaro
Provi: ch’a pena anch’io nel monde scôrto,
Piansi infelice il morto
Mio genitor, restando orbato e solo.
Misero crede, a cui sol largo stuolo
115D’affanni io lascio in dura povertade,
Chiudendo gli occhi, oimè, da te lontano.
Porgi, o Padre sovrano.
Per me soccorso a l’innocente etade:
Ond’ei securo da’ miei colpi acerbi
120Viva, e de l’ossa mie memoria serhi.
Ahi, ch’anzi pur, Signor, pregar devrei
Per le mie gravi colpe al varco estremo:
Dove pavento e tremo
De la giust’ira tua, mentre a lor guardo:
125Tu, cui condusse in terra amor supremo
A lavar col Tuo sangue i falli miei;
Tu, die fattor mio sci;
Volgi nell’opra Tua pietoso il guardo:
Ch’or è pronto il pentir, se, fu ’l cor tardo
130Per la Tua strada, e volto a’ proprj danni:
E con lagrime amare il duol ne mostro.
Tu da l’infernal mostro
L’alma difendi, e da’ perpetui affanni:
Tal che, d’ogni suo peso e nodo sciolta,
135Di Tua grazia gioisca in ciel raccolta.
Là su, là su, Canzon, la vera eterna
Patria n’aspetta: a Dio sen’ torni l’alma,
Che sol bear la può d’ogni sua brama.
E, poi che già mi chiama
140A depor questa fral, corporea salma,
Prestimi grazia a la partita innanzi,
Ch’almen qualch’ora a ben morir m’avanzi.