Strage dell'Italicus

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«Passiamo alle prossime notizie: Si è conclusa ieri la prima edizione del Giro di Camogli, vinta dal ragioniere Oreste Campizzi di Savona.
Record di incassi per il film
4 marmittoni alle grandi manovre con Lino Banfi e Gianfranco D'Angelo.
Per l'edizione del mattino è tutto, a domani.
Ah! No, scusate! Stanotte hanno messo un'altra bomba su un treno, l'Itticus o qualcosa del genere... almeno mi pare. Buongiorno.
»
« Agosto. Si muore di caldo e di sudore.

Si muore ancora di guerra
non certo d'amore,
si muore di bombe, si muore di stragi
più o meno di Stato,
si muore, si crolla, si esplode,
si piange, si urla.

Un treno è saltato.
 »
(Un povero pazzo che nessuno si è mai cagato Claudio Lolli.)

La strage dell'Italicus fu un attentato terroristico perpetrato il 4 agosto 1974 a bordo del treno espresso Roma-Monaco di Baviera via Brennero, frequentato da tantissimi passeggeri, tutti ignari di viaggiare su un convoglio denominato Italicus e di avere una bomba sotto il culo. A dirla tutta, il nome in codice del treno era noto solo ai capistazione iscritti al Rotary Club. Nonostante la tragicità furono ben altri gli avvenimenti che appassionarono l'opinione pubblica, come ad esempio il primo scudetto della Lazio. Attualmente la strage viene vagamente ricordata da pochi smemorati in confusi flashback slegati tra loro; per il resto, buio totale. Nemmeno Salvo Sottile gli ha mai dedicato la benché minima attenzione. L'amara considerazione che viene spontanea è che ci siano stragi di serie A e di serie B, ma ora basta parlare di calcio.

Per quelli che non hanno il senso dell'umorismo, su Wikipedia è presente una voce in proposito. Strage dell'Italicus
« Qui si impone una doverosa rilettura storica, poffarbacco! »
(L'autore di questa pagina, come se ne sapesse più degli altri.)

Contesto storico e sociale

In alto: la caduta del regime di Salazar; in basso: il trionfo sanremese di Iva Zanicchi. Nel mondo accadono fatti di estrema rilevanza storica, ma mai come in Italia.
« Nel 1974 non è successo niente, si è passati direttamente al 1975! »
(Giulio Andreotti su corsi e ricorsi storici.)

Il 1974 sembra essere un anno insignificante, ad un primo esame superficiale. Invece, scorrendo rapidamente gli accadimenti di allora, si scopre una singolare concatenazione niente affatto casuale, quasi a voler implicitamente attestare la presenza invisibile di una longa manus che tutto orchestra e tutto dirige, relegando l'essere umano al ruolo di mezza calzetta mera comparsa priva della possibilità di assurgere al ruolo di faber fortunae suae, con un vaffanculo al libero arbitrio e a Erasmo da Rotterdam.

Nel resto del mondo c'era stato lo scandalo Watergate; la caduta dei regimi totalitari, instaurati a suo tempo da Salazar in Portogallo e dai colonnelli in Grecia; la Germania Ovest vinceva in casa i Mondiali di calcio[avevo detto: basta col calcio!]; i Turchi invadevano la parte settentrionale di Cipro, allo scopo di costruirci tantissime villette abusive per trascorrervi le vacanze estive; l'ONU riconosceva all'OLP di Yasser Arafat il diritto di esistere, ma anche il dovere di vedersela con Israele circa le questioni di confine e di buon vicinato. Era anche nato ufficialmente l'hip hop in un parto gemellare con la serie televisiva Happy Days. E in Italia?

Lungo lo stivale si concentravano gli ardori giovanili impegnati nella cosiddetta "politica attiva": Brigate Rosse e neofascisti si scambiavano pareri e opinioni in una cordiale atmosfera di pacifico e civile confronto. Insomma, si era nel pieno degli anni di piombo. Iva Zanicchi vinse il Festival di San Remo con la canzone Ciao, come stai?, oggi reinterpretata unplugged dai punkabbestia nei centri sociali. Quello stesso anno ci fu quel famoso referendum sul divorzio in cui se avessero vinto i SI il divorzio non c'era, ma vinsero i NO e il divorzio c'era, c'è e ci sarà, a meno che nel frattempo non venga abolito il matrimonio. A fine maggio c'era stata la strage di piazza della Loggia e a fine settembre, nel complesso residenziale di Milano 2, iniziavano le trasmissioni della TV via cavo Telemilano, ad opera di uno sconosciuto Silvio B., lontano cugino della nota fattona berlinese Christiane F., ed ecco che il cerchio si chiude.

La strage

« Raccontami una barzelletta sennò m'addormo: questa galleria mi fa venire un sonno che non mi sveglierebbe nemmeno una bomba! »
(Il primo macchinista dell'Italicus al suo collega.)
« Dunque c'è un tizio che... »
(Il secondo macchinista un petosecondo prima dell'esplosione.)
Ufficialmente Aldo Moro perse il treno poiché venne raggiunto da alcuni funzionari del Ministero e fatto scendere all'ultimo momento per firmare alcuni documenti.

Italia, notte fonda. Il treno Italicus, lasciata Roma da qualche ora, stava per transitare presso la stazione di San Benedetto Val di Sambro, dopo aver percorso tutti i 18.507 metri della Grande Galleria dell'Appennino. Alle 1:23, a due passi dalla stazione, un botto violentissimo sventrò la carrozza n. 5, che divenne un forno crematorio per gli occupanti. I passeggeri a bordo delle carrozze n. 4 e 6 per lo spavento corsero verso i bagni più vicini, tutti rigorosamente fuori servizio. Accaddero scene drammatiche, in cui le urla disperate si mescolarono alla diarrea senza soluzione di continuità. Quando il treno raggiunse una temperatura accettabile cominciò il solito tragico inventario: dodici persone furono trovate morte carbonizzate ed altre quarantotto, benché gravemente ferite, sopravvissero negando agli addetti alle pompe funebri la possibilità di compiere un concreto "salto di qualità". Tra i cadaveri c'era quello di Silver Sirotti, giovane ferroviere in servizio sul treno, che perse la vita in un eroico quanto vano tentativo di spegnere l'incendio con un estintore portatile scarico e mai revisionato.

Aldo Moro, allora Ministro degli Esteri, doveva trovarsi su quel treno, ma fu fatto scendere precipitosamente da alcuni funzionari del Ministero con la scusa di fargli firmare importanti documenti: raccomandazioni, richieste di ferie e di uscita anticipata dal lavoro. In realtà aveva solo sbagliato treno, ma i servizi segreti deviati in corner[e dagli col calcio!] insabbiarono la verità, che poteva essere compromettente per l'ascesa di Moro alla Presidenza del consiglio dei ministri, prevista per il novembre successivo.

« Beh, in ogni caso è stata una gran botta di culo! »
(Aldo Moro, che quattro anni dopo non poté dire la stessa cosa.)

La notizia

Le uniche testate che parlarono della strage. Fu un peccato che Lupo Alberto fosse già in edicola, magari ci si poteva trovare un approfondimento.

La strage era accaduta nel bel mezzo della notte, quando tutte le testate giornalistiche avevano già mandato in stampa le edizioni del mattino. La notizia giunse comunque in breve tempo alle redazioni, grazie all'infaticabile opera di cronisti free-lance disposti a lavorare senza sosta pur di sbarcare il lunario. Ma era comunque tardi: otto direttori di quotidiani su dieci dichiararono:

« Ieri sera ci siamo quasi scannati per fare la prima pagina come si deve e adesso dovremmo buttarla a mare per la solita bombetta del cazzo? Non se ne parla proprio! »

Degli altri due direttori, uno continuò a dormire e non rispose al telefono, l'altro pubblicò un trafiletto quasi invisibile e brutalmente sgrammaticato: era il direttore del giornaletto del dopolavoro ferroviario di Macomer. Fu perciò che a giorno fatto in pochissimi erano a conoscenza dell'atto terroristico, ma le cose non migliorarono l'indomani: i soliti otto direttori su dieci sentenziarono:

« Ma ormai è roba vecchia! Dovremmo pubblicare sul giornale di domani una notizia di ieri? Ma quando mai? »

Il nono direttore dormiva ininterrottamente ormai da due giorni: nessuno si era accorto che era entrato in coma irreversibile. Il dopolavorista invece si era trovato con le mani legate, dal momento che il suo giornaletto usciva con cadenza quadrimestrale.

I telegiornali non furono da meno: le edizioni del mattino effettivamente riportarono la notizia, ma lo share in quella fascia oraria era stabilmente assestato sul -0,6%, i pochi telespettatori erano esclusivamente anziani abbandonati a se stessi (a quell'epoca le badanti non erano ancora state inventate). Come se non bastasse esistevano solo i due canali televisivi Rai che, per non pestarsi i piedi a vicenda, trasmettevano le stesse identiche notizie, quindi non esistevano sistemi alternativi per ottenere informazioni di sorta. Le edizioni successive trattarono l'argomento in maniera superficiale e distratta, d'altronde era agosto, c'era un caldo che favoriva i suonatori di blues e faceva calare drasticamente i livelli di attenzione, in molti erano in vacanza e in ogni caso era più interessante il Cantagiro o una paparazzata sulle tette di Beba Loncar. In pochi giorni la notizia disparve nel nulla e nessuno se ne lamentò, a cominciare dalle vittime.

Le indagini

Il volantino nero

Il volantino col quale fu rivendicato l'attentato. Sulle prime non fu ritenuto attendibile.

Ci fu una rivendicazione: fu trovato un volantino all'interno di un vassoio di croissant recapitato da un ignoto ammiratore al giudice per le indagini preliminari. Sulla prima facciata c'era un disegno di dubbio gusto, sul retro campeggiava la scritta:

« Giancarlo Esposti è stato vendicato. FROCI! Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. CULATTONI! Vi diamo appuntamento per l'autunno; seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti. E alla fine vedremo chi ce l'ha più lungo. CIAO MAMMA!!! KIKKA TI AMOOOOOOOOOOOOOO TI PREGO SPOSAMIIIIIIIIIIIIIIIII!!!!!!!!!!!!!!! »

Vistose macchie di smegma misto a sperma imbrattavano il volantino, ma parlare di DNA a quell'epoca era come bestemmiare durante l'Angelus. Gli inquirenti, dopo essersi lavati accuratamente le mani, si posero subito una domanda:

« Chi cazzo è Giancarlo Esposti? »

Per molto tempo la questione rimase insoluta, poi l'usciere della questura ricordò a chi apparteneva quel nome: un vecchio compagno d'asilo fissato col saluto romano, morto tempo prima mentre attraversava un passaggio a livello incustodito. Dunque le indagini si indirizzarono sul versante neofascista, precisamente sul gruppo eversivo denominato Ordine Nero, di cui Giancarlo Esposti avrebbe tanto voluto far parte, se fosse stato ancora vivo. Le indagini, condotte con scientifico rigore, portarono ad identificare i presunti mandanti e gli esecutori materiali, ma proprio allora gli investigatori furono assaliti da un dubbio che fece trascorrere loro parecchie notti in bianco:

« Cioè, ma ci abbiamo azzeccato davvero? Abbiamo davvero preso i colpevoli? Pare impossibile, sarebbe la prima volta! »

Perciò iniziarono a serpeggiare ipotesi di complotto ai danni delle forze dell'ordine. Nessuna tesi del genere sembrava essere fondata, ma ormai gli inquirenti erano partiti in quarta alla ricerca dell'immancabile depistaggio, che in questi casi non si fa mai attendere.

E qualcosa trovarono.

Il depistaggio rosso

Il tentativo di depistaggio: la "pista rossa".

Per una volta il quadro sembrava essere abbastanza chiaro: una strage di matrice neofascista, un volantino di rivendicazione, testimonianze, riscontri oggettivi, evidenze inconfutabili. Tanta grazia era effettivamente eccessiva, ne erano consapevoli gli stessi magistrati bolognesi:

« Chi verrà a confondere le acque? I servizi segreti? La massoneria? Le eminenze grigie? I carabinieri? Il garzone del lattaio? »

A farsi viva fu la P2. Licio Gelli in persona ebbe un colloquio con "quello che paga gli stipendi ai magistrati", al termine del quale fu imbastita un'indagine su una improbabile "pista rossa". Il giovane fascistello Francesco Sgrò, già indiziato per la strage, cercò di far ricadere le colpe di essa su ambienti universitari della sinistra romana: a suo dire, i comunisti universitari della capitale, soprattutto quelli della facoltà di fisica, ci sapevano fare con gli esplosivi. "Sono loro a fornirmi i botti per capodanno", precisò. Inoltre, qualcuno fece rinvenire su ciò che restava della carrozza n. 5 alcuni simboli e immagini che riconducevano inequivocabilmente agli ambienti di sinistra: un pugno chiuso, una falce con un martello, una fotografia di Lenin. Ciò che insospettì gli investigatori fu che nessuno di questi oggetti era bruciato come gli altri. La tesi dello Sgrò iniziò a vacillare, ben presto fece acqua da tutte le parti. Messo alle strette, il depistatore mancato si giustificò:

« Sono stato frainteso! Non ho mai detto che l'esplosivo nascosto negli scantinati della facoltà di fisica di Roma era maneggiato da studenti di sinistra! Ho semplicemente detto che era maneggiato con la mano sinistra da studenti di destra, per puro caso tutti mancini! »

Questa prodezza[citazione necessaria] fruttò a Sgrò il rinvio a giudizio per calunnia, a Licio Gelli un cazzo. In ogni caso si era perso un sacco di tempo, durante il quale gran parte delle prove a carico dei veri responsabili furono inopinabilmente dimenticate.

Ulteriori sviluppi

Un extracomunitario extraparlamentare di sinistra, Aurelio Fianchini, detenuto nel carcere di Arezzo per aver tentato di mangiare un bambino, evase per andare a troie e farsi una doccia degna di questo nome. Espletate queste fondamentali necessità, si costituì presso la squadra mobile di Roma il 16 dicembre 1975. Qui dichiarò di aver raccolto le confidenze di alcuni coinquilini di galera, proprio quelli che erano sospettati di aver compiuto la strage. Il Fianchini avrebbe anche raccolto le loro confidenze in quattro quaderni con la copertina di Tex Willer, ma li avrebbe perduti durante la fuga.

« Ma non c'è problema: è tutto stampato qui! »
(Il Fianchini mentre si martella la tempia col dito indice, provocandosi un TIA.)
Il commissario Gerlando "Topo Gigio" Sbucciafava effettua un sopralluogo sulla scena del crimine.

Secondo le sue rivelazioni, il mandante della strage era un geometra di Empoli piuttosto incline a perdere la pazienza e dal grilletto facile: Mario "Kill'em All" Tuti; gli esecutori materiali erano Piero "Die You Bastard" Malentacchi, Luciano "Ano" Franci e Margherita "Bella F." Luddi, tutti di Ordine Nero. La precisione e la ricchezza di dettagli delle rivelazioni di Fianchini sembravano tali da far ritenere risolto il caso. Non la pensò così il commissario Gerlando Sbucciafava, un tipetto simpatico chiamato dai colleghi Topo Gigio per le sue enormi orecchie a sventola e la vocina esile e femminea. Secondo il suo parere le dichiarazioni del Fianchini erano inconsistenti e, soprattutto, mancavano del pathos e della solennità necessari per rivelazioni di quella portata.

« Commissa', la prego, metta in funzione quelle padelle che ha al posto delle orecchie e mi ascolti: io so chi è stato e posso provarlo! »
(L'ennesimo tentativo del Fianchini di farsi ascoltare.)
« Ma cosa mi dici mai? »
(La replica asciutta del commissario "Topo Gigio".)

I processi

I processi subirono anch'essi vari tentativi di depistaggio, nonché due apposizioni del segreto di stato. Essendo un segreto, ne sono ignote le motivazioni. Al termine delle lunghissime fasi istruttorie si giunse alla seguente considerazione finale:

« Quindi? »
Il giudice Corrado Carnevale pone una pietra tombale sul caso con una risoluta operazione di pulizia.

Nel terzo grado di giudizio si ebbe un bilancio di zero colpevoli, mille assolti e l'equivalente di due manovre finanziarie spese solo per la cancelleria. Un successo, l'ennesimo, della macchina della giustizia italiana. Lo scarso clamore mediatico, unito al fatto che non c'era un gruppo coeso di familiari delle vittime che scassasse la minchia agli inquirenti, fece sì che l'interesse dell'opinione pubblica fosse catalizzato dalle tette di Samantha Fox piuttosto che dai noiosi dibattimenti processuali.

Corte d'Assise

L'istruttoria si concluse il 1 agosto 1980, casualmente il giorno prima della strage di Bologna, con il rinvio a giudizio di Mario Tuti e soci come mandanti ed esecutori materiali della strage. Ci vollero quasi tre anni perché venissero tutti assolti, il 20 luglio 1983, chi per amnistia, chi perché in fondo era un simpaticone.

Corte d'Appello

Il 18 dicembre 1986 la sentenza di primo grado venne in qualche modo ribaltata, almeno in parte: il giudice era cambiato e alcuni imputati gli stavano saldamente sui coglioni. Mario Tuti e Luciano Franci ebbero l'ergastolo, gli altri videro confermate le sentenze di primo grado.

Corte di Cassazione

Era il 16 dicembre 1987: il giudice Corrado Carnevale, noto per la sua maniacale ossessione di liberare ad ogni costo gli scaffali degli archivi da faldoni mastodontici e polverosi, fece l'ennesima "pulizia a fondo" assolvendo definitivamente tutti, anche i passanti. In questo modo, la precedente sentenza della Corte d'Appello servì per produrre la cartapesta necessaria per la costruzione del carro allegorico da sfoggiare nel successivo carnevale[Nomen omen].

Le condanne

Paragrafo lasciato intenzionalmente vuoto.










La vita degli altri continua

L'unica conseguenza certa di questi misfatti è sempre una lapide ad memoriam.